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Riforma del Terzo Settore: non facciamone un’ occasione persa. Abbiamo aspettato troppo tempo per non avere una buona riforma.

admin maggio 15, 2017 campagne

Tre anni fa l’allora premier Renzi lanciava la proposta di una riforma del Terzo Settore per valorizzare quella fu definita “un’Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone…”

L’Arci, con la sua rete di 5.000 circoli e più di 1 milione di soci, ha accolto quella sfida con l’entusiasmo di chi vuole innovare e rinnovarsi, consapevole dell’urgenza di dover arrivare ad una definizione normativa chiara e lineare, puntando sul rafforzamento delle relazioni di questo ampio mondo con la società, le persone, le istituzioni.

Da lungo tempo l’Arci ha denunciato come le differenti stratificazioni, normative e non solo, abbiano negli anni appesantito e messo in difficoltà il mondo dell’associazionismo che rappresenta un fattore decisivo per un progetto di società che ponga attenzione alla riduzione delle disuguaglianze. Eravamo e siamo convinti che un riordino fosse necessario alla promozione del non profit e del terzo settore. Abbiamo sostenuto che determinare più chiarezza portasse a un’effettiva e piena valorizzazione delle storie di impegno di organizzazioni e volontari che destinano il proprio tempo e le proprie idee al miglioramento della qualità della vita delle persone, tutte, nessuna esclusa, all’interesse generale e alla cura dei beni, materiali e immateriali, collettivi, fosse un’occasione da non perdere. E se anche l’iter scelto dal Governo, quello di una legge delega, necessariamente avrebbe inevitabilmente determinato un periodo di ulteriore attesa a fronte di esigenze impellenti di semplificazione e di valorizzazione, abbiamo condiviso che non fosse necessaria una singola norma o un singolo provvedimento.

Il progetto di Riforma, poi sfociato nella Legge 106 del 2016, è stato condiviso quindi con il mondo del terzo settore attraverso consultazioni on line, incontri con esponenti del Governo e del Parlamento, iniziative delle reti associative e del Forum del Terzo Settore, audizioni alle Camere.  Questo importante lavoro condiviso ha portato a far nascere una buona legge delega

All’indomani dell’approvazione, avendo un anno di tempo per riempire di contenuti specifici la legge delega, si trattava di dare concretezza e gambe alle premesse di fondo. Ora che siamo agli sgoccioli – mancano poco meno di due mesi alla scadenza della delega conferita al Governo –  perché quei presupposti si trasformino in buoni decreti attuativi, dobbiamo però rilevare diverse perplessità. Di metodo e di merito.

Di metodo perché in questi mesi, l’interlocuzione del Governo è stata intermittente, piena di contraddizioni e di cambiamenti in corso d’opera. Solo venerdì 21 aprile è stato possibile visionare la bozza del testo più delicato in quanto a ricadute concrete per tutto il terzo settore, ma in particolare per le Associazioni di Promozione Sociale: quello che riguarda la parte fiscale.

Solo il 27 di aprile si è finalmente sancito un tavolo “ufficiale” di interlocuzione tra Governo e Forum Terzo Settore, ma a distanza di soli dieci giorni viene richiesto di “chiudere” in tutta fretta.

Ora, anche se il confronto non è mai vano, è difficile poter affermare che su una parte così delicata dieci giorni potessero essere sufficienti per fare un buon lavoro e sciogliere tutte le criticità che si profilano all’orizzonte.

Certo il Governo ha accolto numerose osservazioni e correzioni, ma crediamo ci sia ancora molto da fare per ottenere un risultato rispettoso di quanto migliaia di persone fanno quotidianamente nel Paese in chiave prevalentemente volontaria.

Il percorso del Governo, ad oggi, non ha coinvolto nemmeno informalmente i parlamentari, né tantomeno gli enti locali con l’ANCI o la Conferenza Stato-Regioni, nonostante il non profit e il terzo settore siano formidabili alleati nel mantenimento della coesione sociale sul territorio e siano soggetti su cui proprio questi enti fanno affidamento per l’implementazione, il miglioramento e l’adeguamento dell’offerta di servizi e opportunità per i cittadini.

 Di merito perché mancano nei principi che accompagnano il riordino civilistico della riforma concetti come quelli di “mutualismo” e “partecipazione democratica”. Senza un ancoraggio a questi concetti viene meno il valore della solidarietà attiva, della cura della dimensione relazionale e sociale delle persone e della cittadinanza attiva. Viene meno un architrave su cui è stata costruita quell’ “Italia generosa e laboriosa”, che si attiva prevalentemente in associazioni di promozione sociale e di volontariato e che svolge un ruolo fondamentale per il benessere dei cittadini spaziando dall’ambito di cura fino a quello della promozione culturale, dall’ambito di assistenza a quello di crescita ed emancipazione personale.

Oggi che siamo in dirittura d’arrivo emerge in modo incontrovertibile un orientamento volto più a valorizzare l’impresa con la novità dell’introduzione di uno spazio anche per quella di capitale, anziché l’associazionismo e il volontariato.

Quello che sembrerebbe interessare allo Stato è la facilitazione di soggetti che “erogano servizi e prestazioni” e non capiamo perché alle forme di non profit attualmente esistenti si vogliano applicare dei distinguo e norme più stringenti di quelle che riguardano le imprese introducendo pesanti elementi di complicazione burocratica che, così come si stanno configurando, potrebbero mancare l’obbiettivo di promuovere una cooperazione tra gli enti di terzo settore, rinchiudendoli nel loro stretto specifico fallendo nella costruzione di percorsi che possono contribuire a una società più solidale, di più estesa relazione, di crescita appunto del “benessere complessivo delle persone”. Potrebbero inoltre sovraccaricare il pubblico e gli enti di terzo settore di adempimenti, distogliendoli dal fine primario che vogliono perseguire.

Nei testi di decreto sembrerebbe esservi finalità e attività di serie A e altre di serie B. Spiace riscontrare che buona parte del patrimonio di attività dell’associazionismo sia marginalizzato. Un esempio: l’attività di apprendimento è citata solo nella sua accezione di contrasto alla dispersione scolastica e non quando di articola in autoapprendimento per contrastare la solitudine, il degrado cognitivo nella terza età o per crescita personale.

Si ha l’impressione che si stabilisca un’equivalenza tra dimensione economica e commercialità. Eppure la realtà concreta di tante associazioni e soggetti di terzo settore è fatta di attività economica che non sono né commerciali né lucrative ma semplicemente permettono l’autofinanziamento.

Chi, come tante esperienze dell’Arci e dell’associazionismo in generale, si autofinanzia con le proprie attività per garantire partecipazione, opportunità e attività per il benessere delle persone si troverebbe più penalizzato rispetto al passato.

Oggi chiediamo al Governo di garantire al processo in atto il giusto tempo per una buona e armoniosa sintesi dei tanti importanti aspetti giudico-normativo-fiscali sul tappeto.

Siamo certi che sia possibile trovare un giusto equilibrio tra i nuovi adempimenti che si affidano al Terzo Settore in relazione alle semplificazioni e agevolazioni fiscali senza ingenerare pericolosi effetti boomerang.

Serve un surplus di dialogo, confronto, attenzione e, forse, di fiducia.

Roma, 12 maggio 2017

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